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Calabria, la lotta alla ‘ndrangheta la fanno le donne

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    Nel giorno della sentenza del maxi-processo “Crimine”, l’8 marzo in Calabria è nel segno delle donne ribelli che, inseguendo un amore conosciuto su internet, un destino diverso per i figli o, semplicemente, la vita al posto della morte, hanno aperto il fronte più caldo nel contrasto alla criminalità organizzata calabrese, il fronte interno. I loro nomi, Rosa Ferraro, Giuseppina Pesce, Ilaria La Torre e Maria Concetta Cacciola sono diversi, così come i loro destini: c’è chi è riuscito a collaborare con la giustizia, chi è stata uccisa e chi ha preferito togliersi la vita, stretta nella morsa sempre più stretta di famiglie violente di ‘ndrangheta.

    REGGIO CALABRIA – Hanno spento il focolare domestico e sbattuto la porta di casa, perché anche per le donne di ‘ndrangheta, «dev’esserci un modo di vivere senza dolore», come cantava Fabrizio De Andrè. L’8 marzo in Calabria, tra incontri pubblici, tavole rotonde, assemblee scolastiche e reading teatrali, è nel loro segno: le donne ribelli che negli ultimi tempi, inseguendo un amore conosciuto su internet, un destino diverso per i figli o, semplicemente, la vita al posto della morte, hanno aperto il fronte più caldo nel contrasto alla criminalità organizzata calabrese. Il fronte interno. Spalancato nel cuore stesso del potere ‘ndranghetista, nello spazio della legittimazione e del nutrimento di regole e modelli affidato e controllato proprio dalle donne.

    Un vero contrappasso. A Rosarno, i Pesce e i Bellocco non sono mai stati teneri con le donne che scantonavano. Troppa passione? Macché. Questione di legittimazione ‘ndranghetista. Il pentito rosarnese Pino Scriva, in un memoriale del 1984, l’aveva spiegato bene: «Quelli che la moglie, la sorella o la cognata avevano sbagliato e non erano stati fedeli al marito, questi appartenevano alla categoria dei cornuti e quindi non potevano far parte della ‘ndrangheta. Ma siccome quello che portava il marchio delle corna era l’ultimo a saperlo, durante le riunioni gli imponevano di tagliarsi le corna uccidendo la congiunta e l’amante».
    E così il 1 settembre 1977 Maria Rosa Bellocco viene ammazzata assieme al figlio di 9 anni, e al marito che non aveva avuto il coraggio di punirne il tradimento, e nel 1981 Annunziata Pesce viene ammazzata e fatta sparire da zii e fratelli per la relazione con un carabiniere. In certe case, a Rosarno, insomma, se tuo padre o tuo fratello ti chiedono di seguirli, sai che potresti non tornare più.

    Sono le stesse case da cui Rosa Ferraro, Giuseppina Pesce, Ilaria La Torre e Maria Concetta Cacciola hanno deciso di uscire. A Rosa, imparentata con la cosca Pesce e decisa a collaborare con la Guardia di finanza per una storia di intestazione fittizia di beni, doveva ammazzarla il fratello Marco. L’avevano scelto, in famiglia, perché ritenuto “scemo”, ma Marco si è dimostrato più capace di altri di distinguere l’orrore ed ha avvisato la sorella che ora è sotto protezione. Ilaria è invece fuggita dal matrimonio infernale con Francesco Pesce: «Non potevo esprimere nessuna opinione. Una volta per le botte sono finita in ospedale», ha coraggiosamente testimoniato nei mesi scorsi di fronte al Tribunale di Palmi dov’è in corso il processo “All Inside” contro la cosca Pesce. La vera spina nel fianco, però, è Giusy che dei Pesce porta il cognome: «Ho capito l’importanza della motivazione per cui ho collaborato: il futuro dei bambini e l’amore per un uomo che mi ama per quello che sono e non per il cognome che porto». Arrestata nell’aprile 2010 nel maxi-blitz contro l’omonima cosca, Giuseppina ha deciso, nell’ottobre dello stesso anno, di collaborare con i magistrati della Dda di Reggio Calabria e tra qualche settimana anche lei deporrà nel processo “All Inside”. Ma in videoconferenza e da una località protetta.

    La sua amica Cetta Cacciola, invece, in aula non ci arriverà mai. «Perdonarmi mamma della vergogna che ti provoco ma pian piano mi sono resa conto che in fondo sono sola, sola con tutti e tutto non volevo il lusso, non volevo i soldi…era la serenità, l’amore che si prova quando fai un sacrificio, ma avere le soddisfazioni, a me la vita non ha dato nulla che solo dolore», aveva scritto prima di partire, nel maggio 2011, verso una località protetta. Dalla sua casa di Rosarno era scappata 13 anni sposando un uomo “per avere un po’ di libertà…credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai”. Poi i tre figli, l’arresto del marito e la vita da reclusa. A vigilare su di lei il padre – cognato del boss Gregorio Bellocco – e il fratello Giuseppe. Solo che Cetta ha 30 anni e vuole spazio. Lo cerca su internet con il nickname “Nemi”. È tutto virtuale il suo amore per “Principe 484”, ma non lo sono i calci e i pugni di padre e fratello dopo le prime lettere anonime. Cetta Cacciola diventa testimone di giustizia e lascia l’inferno. Ad ucciderla sarà il ritorno sui suoi passi. A pochi giorni dal rientro a casa, nell’agosto 2011, infatti, si attaccherà ad una bottiglia di acido muriatico. Padre, madre e fratelli sono stati arrestati per violenza in famiglia. L’8 marzo calabrese avrà il suo nome, ma anche quello di Lea Garofalo – la testimone di giustizia di Petilia Policastro uccisa e sciolta nell’acido nel novembre 2010 nella periferia milanese – e Tita Buccafusca, la moglie del boss di Limbadi, Pantaleone Mancuso, che il suo percorso di testimone l’aveva solo abbozzato prima di “decidere” che l’unica strada verso la libertà era l’acido muriatico in gola.

    Storie come brecce. L’ultima si è aperta a Melicucco, nella Piana di Gioia Tauro: Simona Napoli, dopo aver visto il padre e il fratello che trascinavano via, pistola in pugno, il ragazzo che ama, ha guidato fino alla prima caserma dei carabinieri. E ha parlato. Della sua famiglia difficile, del matrimonio con un uomo che lavora al Nord e di quell’innamoramento nato su facebook e finito, per Fabrizio Pioli, 28enne di Gioia Tauro, con un colpo di pistola in testa. Il corpo del ragazzo lo stanno ancora cercando, mentre Simona è in una località protetta. Segnali importanti di ribellione che l’8 marzo, anche sull’onda della campagna “Tre foto e una mimosa” lanciata dal direttore de “Il Quotidiano della Calabria”, Matteo Cosenza, saranno valorizzati in tutta la Calabria. Per ricordare e sostenere le donne che hanno scelto, e offrire una sponda a quelle che, accanto al focolare domestico, pensano di farlo.
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  2. alessandro (genova)
     
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    Si può parlare tanto, si può manifestare, scioperare, esibirsi e contestare, è necessario farlo, è doveroso che i più giovani lo facciano, che si impegnino per questo e per altro, che ci credano, con sincerità e convinzione, e come dice una canzone di un gruppo alternativo: che stringano il loro sogno con rabbia e con poesia!
    Ma mi rendo conto, come giovane uomo, che poi ciò che più desideri, ciò che più ti accende, ti infuoca e ti impegna, viene sempre stroncato sul nascere dalla realtà, fatta di connivenze, pavidità, omissioni e interessi...Quante ne potrei raccontare sul mio mestiere di medico e in particolare di medico psichiatra ad esempio, potrei dire e scrivere parole infinite di tutti gli ostacoli che quotidianamente incontra un giovanissimo psichiatra che non si piega alle prepotenze delle industrie farmaceutiche, che vuole fare il medico, il medico dell'anima, come dalla stessa parola, psichiatria, che in greco significa proprio questo: psychè: anima, iatreia: cura, iatros: medico, quindi medico che ha cura dell'anima, che vuol comprendere e confortare le emozioni ferite e in tensione, i sentimenti offesi e calpestati, ignorati e dimenticati, e non fare il secondino, che chiude dentro una stanza e lega ai letti, non lo sperimentatore chimico che stordisce con devastanti farmaci neurolettici...e tutti hanno le loro battaglie da combattere senza mai piegare la testa, senza mai assoggettarsi ai voleri di chi si trova nella posizione di poter imporre e comandare...ma se comanda disastri, distruzioni? si può davvero obbedire a quel punto? si può davvero far finta di niente? Sembrerà che ho divagato, ma così non è, perchè anche chi quotidianamente sconta i suoi giorni tra omicidi, ragazzi persi nella droga, spaccio di stupefacenti, disoccupazione assurda, manovalanza delinquenziale ecc, ha la sua battaglia da combattere...e il discorso è identico, ma proprio identico!
    Ecco che poi. però, io alle volte devo trattenermi vorrei aprire il reparto di psichiatria a far uscire il 'matto', il 'pazzo', il 'folle', e mi scontro con le ottusità e la posizione di un primario, bravo a far cassa, e i giovani di Calabria, che vorrebbero vivere in una terra libera, ospitale, accolgiente, bella e radiosa come il suo sole che splende alto sopra i suoi monti, si scontrano con le ipocrisie di chi, per dirla con Guccini, 'sta sempre con la ragione e mai col torto', come i gerarchi vaticani, che non hanno avuto emore nè rimorsi nè vergogna a rimuovere un vescovo e soprattutto un uomo, Giancarlo Bregantini, che si batteva a viso aperto e con coraggio e lealtà contro la malavita, contro chi rende impossibile da vivere, un inferno, la vita degli altri. Ma tanto, a chi sta ben asserragliato in quei lussuosi palazzi vaticani, tutti coloro che parlano di bene e fabbricano il male, giorno dopo giorno, istante dopo istante, attimo dopo attimo, parola dopo parola, scelta dopo scelta, dell'inferno che c'è qui, su questa terra, in certe terre, in certi territori, a loro cosa cazzo importa? A loro basta parlare di inferni e paradisi ultraterreni, poi dei tanti che in un ospedale ci entrano e ci crepano, dei giovani bruciati dalla droga e di chi la spaccia, di questi inferni loro se ne fottono, loro e compagnia razziando e pregando. Perchè questo fanno: razziano, fottono e pregano...ebbè, hai capito, se pregano...
    ripeto, sembrerà che ho esulato dal tema e dal merito, ma non è affatto così, perchè tutto si riconduce al credere in qualcosa, e ad impegnarsi per essa...la mia battaglia è quella di contribuire, senza pretese di nessuna sorta, ma solo con la forza delle moe convinzioni, a far sì che una disciplina medica, la psichiatria, aiuti, comprenda, sostenga e non leghi, non releghi, non stordisca nè cataloghi nessuno, e la battaglia di chi nasce e vive nelle generose terre del Sud Italia, offese e calpestate dall'ignavia e dalla pavidità dei più prima ancora che dal malaffare e dalle violenze di pochi ma ben forniti di armi e quattrini e coperti da amici potenti e conniventi, è quella di crederci e di fare...nonostante il Vaticano, i politici collusi e complici, i mafiosi pentiti e stipendiati...
    Vorrei concludere con le parole di un grande uomo, come ce ne sono pochi, che ha osato crederci e insistere: Franco Basaglia, un uomo e uno psichiatra al cui sorriso e al cui sogno e al cui impegno incessante dobbiamo, in Italia, unico paese al mondo a fare questo, la chiusura di quella vergogna di Stato chiamata manicomio.
    Franco Basaglia ha scritto: 'E' quel che ho detto già mille volte; nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, noi non possiamo vincere, perchè è il potere che vince sempre: il potere degli interessi, il potere del denaro, il potere delle posizioni raggiunte ed occupate. Noi possiamo al massico convincere. Ma nel momento in cui convinciamo noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di cambiamento, di metamorfosi, difficile da recuperare!'...parole meravigliose, parole che a me danno una carica pazzesca, assoluta, parole che rivolgo a tutti coloro, giovani e meno giovani, che in ogni parte vivono situazioni di disagio e marginalità, come augurio e come sprone a crederci, a fare, iompegnarsi e non arrendersi, mai !
    Buona notte a tutti...
     
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1 replies since 10/3/2012, 17:30   107 views
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